Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova va stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere, in relazione alla natura dell'impiego. Il legislatore regolamenta una materia sino ad oggi incerta, fissando il principio della proporzionalità del periodo di prova in rapporto alla durata del contratto e alle mansioni in relazione all’impiego. Tuttavia c’è scarsa concretezza nella norma, in quanto il concetto di “proporzionale” non conosce una sua definizione sostanziale, lasciando all’interprete la scelta di individuare i parametri di riferimento al fine di procedere alla diminuzione del periodo di prova rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva (CC) per il rapporto a tempo indeterminato. Fondazione studi dei Consulenti del lavoro, nell’approfondimento del 6 settembre scorso, ritiene che nell’ambito della durata massima, predeterminata dal legislatore, e della durata inferiore prevista dalla CC, le parti contrattuali possano individuare concordemente parametri validi di proporzionalità basandosi sulla durata complessiva del contratto (es. stilando una graduazione di durata della prova in ragione dei mesi o degli anni di durata del contratto a termine) e sul tipo di mansioni da svolgere (es. predisponendo una graduazione di durata della prova in base al mansionario disciplinato nel CC applicato), tenendo conto della natura del lavoro (ad es. modulando i due parametri indicati in funzione del settore ove opera l’azienda e della rilevanza oggettiva dell’impiego), per poi procedere alla certificazione della loro volontà. Il legislatore prevede che in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova. Infatti, se la funzione della “prova” va individuata nella possibilità per entrambe le parti contrattuali di valutare il reciproco apprezzamento verso quel tipo di rapporto, tale funzione verrebbe meno in una logica di rinnovo. La ripetizione potrebbe essere ammessa solo se, in base all’apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.
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