Bassa digitalizzazione di imprese e lavoratori, pesanti limiti legati alle infrastrutture del Paese e diffidenza da parte di imprenditori all’adozione di questa modalità di lavoro: queste le principali criticità che stanno caratterizzando la sperimentazione, in corso su tutto il territorio nazionale, dello smart working per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Si tratta del “test” più grande che sia stato condotto sul lavoro agile nel nostro Paese e che coinvolge 4 milioni 490 mila dipendenti, pubblici e privati: il 24,8% della forza lavoro in organico delle imprese e delle organizzazioni pubbliche italiane. È quanto emerge dal focus della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro “Non chiamatelo smart working. Il lavoro agile ai tempi del Coronavirus secondo i Consulenti del Lavoro”, secondo estratto dell’indagine condotta tra il 23 e il 25 marzo 2020 su 4.463 iscritti all’Ordine. Per i Consulenti del Lavoro a pesare è innanzitutto il basso livello di digitalizzazione del Paese, sia per l’indice di alfabetizzazione digitale di imprenditori e lavoratori (l’88,4% concorda che tale aspetto rappresenta un forte ostacolo per l’efficacia dello strumento), sia per le carenze delle infrastrutture tecnologiche (l’81,8% degli intervistati). Emerge anche un atteggiamento di diffidenza verso il lavoro agile da parte di larghi segmenti del tessuto imprenditoriale (79,3%) che non contribuisce alla sua diffusione in questa fase emergenziale. L’indagine mostra, poi, la diffusione del lavoro agile sul territorio nazionale. Al Nord la quota di dipendenti “agili” è decisamente più elevata (18,8%), con punte in Lombardia (22%), Emilia Romagna (19,1%) e Piemonte (19,1%). Al Centro, ad eccezione del Lazio, la quota di quanti lavorano da casa si attesta al 17,4%, mentre al Sud scende al 15,3% ed è persino inferiore a quella di chi continua a lavorare in sede (18,1%). "Quella che fin dall’inizio è stata presentata come un’esigenza, ma anche una grande opportunità di modernizzazione del lavoro si è concretizzata nei fatti in un’esperienza allargata di home working più che smart working"., spiega in un comunicato stampa Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. "Molte delle aziende che si sono trovate da un giorno all’altro a dover organizzare e gestire il lavoro da casa hanno bypassato la ‘cultura dello smart working’, ovvero tutti quei percorsi di progettazione, sperimentazione, comunicazione, sensibilizzazione, formazione e monitoraggio di questo modello organizzativo. Senza considerare poi l’investimento che questo richiede in termini di infrastrutture tecnologiche private (dalla sicurezza delle reti alla disponibilità di pc e altri device per far lavorare i dipendenti da casa), ma soprattutto pubbliche: da anni ripetiamo che una cultura moderna del lavoro fatica a radicarsi in un Paese, come il nostro, che non è in grado di garantire una copertura uniforme di banda larga”, conclude De Luca.
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