Martedì, 26 Settembre 2017 10:01

Industry 4.0 e lavoro 4.0, due mondi paralleli che fanno fatica ad incrociarsi

A cura di Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro

Nel mondo del lavoro che cambia si osservano una serie di fenomeni giuridici e sociali caratterizzanti l'economia del nostro Paese. La prima spontanea considerazione riguarda il nuovo modello di industria, meglio nota come Industry 4.0, che si sta affermando nel mondo e che con fatica stiamo cercando di importare. Sotto questa denominazione c'è quel riuscito tentativo (in altri Paesi) di far fare un salto in avanti ai meccanismi del sistema produttivo, per cercare di renderlo competitivo rispetto alle dinamiche delle altre aree del Mondo. In Italia tutto ciò avviene come sempre a macchia di leopardo, tanto meno avviene sotto l'attenta regia dello Stato che certo non brilla per politiche attive mirate allo sviluppo economico.

Nell’attuale contesto è tutto il mondo del lavoro che deve fare una profonda riflessione culturale sulle modalità necessarie ad affrontare la rivoluzione in arrivo. I fiacchi risultati ottenuti da tutte le forme di lavoro "moderno", al momento introdotte nell'ordinamento, testimoniano proprio questa arretratezza culturale, agganciata a riti inadatti a governare la modernità. Telelavoro, smart working, lavoro agile: la nomenclatura per descrivere un modo diverso di lavorare può essere oggetto di voli di fantasia. Ma la sostanza non cambia. Nessuna di queste diverse modalità lavorative ha trovato la diffusione e l'accoglienza che meritano le forme rivoluzionarie create per sovvertire un sistema incancrenito. E se ai lavoratori viene richiesta una maggiore intraprendenza, ai datori di lavoro ancor di più va instillato il convincimento che solo affidandosi a schemi contrattuali moderni può arrivare la svolta. Ma, fin quando prevarrà l'istinto del controllo visivo delle attività lavorative svolte dal proprio dipendente, sarà praticamente impossibile fare il necessario salto di qualità.

La scommessa è questa. Ammodernare le imprese, il lavoro, il sistema-Paese senza per questo cedere nulla alle tutele e ai diritti. L’informatizzazione dei processi produttivi non deve fare paura e creare psicodrammi collettivi. Si diceva la stessa cosa quando, a metà secolo scorso, la Fiat creò la catena di montaggio. Eppure l'Italia andò incontro al miglior periodo economico mai attraversato.  All'epoca cambiarono le modalità di esecuzione del lavoro, non più legato alla produzione individuale ma all'inserimento all'interno di un circuito produttivo più organizzato.  Con l'avvento di internet negli anni '90 abbiamo avuto un'altra rivoluzione tanto silenziosa quanto invasiva. Sono nuovamente variate le modalità di erogazione della prestazione lavorativa, sia subordinata sia autonoma, e solo chi ha saputo riciclarsi, riconvertirsi ha potuto mantenere il proprio livello lavorativo.

Dall'ultimo studio dell'Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro emerge proprio questa immagine. Tra il 2012 e il 2016 sono aumentate di circa 23mila unità di lavoro gli analisti e progettisti di software, I tecnici programmatori (+14mila), gli esperti in applicazioni (+13mila), i progettisti e gli amministratori di sistemi ma anche i ricercatori ed i tecnici laureati in scienze matematiche e dell'informazione, fisiche, chimiche e della terra (+6mila). Emerge, dall’analisi di dettaglio del rapporto, una significativa incidenza del lavoro che innovazione e tecnologia contribuiscono a creare. Il processo di innovazione tecnologica crea domanda di lavoro “nuovo”, non solo per quantità ma, soprattutto, per qualità. È compito delle aziende quindi confrontarsi con l’evoluzione tecnologica. Industry e lavoro per potersi incontrare devono trovare nuove regole e opportunità, che non possono essere quelle esistenti e stantie. Contemporaneamente deve crescere anche la curiosità dei lavoratori di andarsi a confrontare con esperienze, attività e specializzazioni nuove ricercando occasioni di formazione e riconversione delle professionalità.